SAN GIORGIO – “Il cortile del Vaticano si chiamava così perché un signore anziano stava tutto il giorno seduto su una poltrona rossa, sembrava davvero il Papa…”. Un segreto che molti non conoscono su uno dei luoghi storici del paese, l’ampia corte in fondo a via Zanetti ora quasi disabitata ma un tempo gremita di gente. Non lo racconta però un sangiorgese doc, uno dei “vecchi” radicati da generazioni, ma una donna slovena di 85 anni. Ana Marija Cetin Lapajne ha passato qui sei mesi della sua vita, forse i più delicati, da internata durante le fasi convulse della Seconda guerra mondiale. Una sorta di “confino” che dalla sua Slovenia ha obbligato lei e la famiglia a passare in Lomellina il periodo dall’agosto del 1942 fino alla fine dell’anno. Li aspettava un futuro ancora più incerto. La colpa? Nessuna: essere di etnia slava e trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
La signora Cetin è sempre rimasta in contatto con la “sua” San Giorgio, ma l’ultima telefonata è struggente. Nei giorni scorsi ha chiamato la biblioteca per sapere se tutti stavano bene, se qualcuno mancasse all’appello per via dell’epidemia. Era stata invitata lo scorso settembre per un grande evento, poi saltato per le precarie condizioni di salute dell’85enne. Ora sembra stare meglio. Non si esclude che quando sarà tutto finito, finalmente potrà riabbracciare i sangiorgesi. Lo sperano in molti e lo spera Adriana Vicini, che coordina i volontari della biblioteca e che conosce la storia.
Il modo in cui da San Giorgio sono riusciti a ritrovarla è rocambolesco, da film. Una storia nella storia. In tantissimi aspettano un giorno quella che ormai è una “concittadina onoraria”. Del resto la signora Cetin, sposata Lapajne, ha sempre rivelato di serbare un ottimo ricordo di San Giorgio, pur costretta ad abitarci. Gente cordiale, che quando poteva aiutava portando cibo e vestiti e non ha mai fatto mancare una parola di conforto. Era tornata (ma si è saputo di recente) nel 2002, in incognito, per una breve visita.
La famiglia Cetin, papà Giovanni – in realtà era Ivan, ma sotto il fascismo gli esotismi anche nel nome li dovevi togliere – mamma Antonia Stefan e zia Francesca non era anti-italiana. Anche se l’occupazione italiana in Slovenia era dura cercavano di farsi i fatti loro. A scopo di rappresaglia contro alcuni villaggi che ospitavano partigiani, 24 ostaggi sloveni presi quasi a caso furono scelti dal nostro esercito per essere fucilati. C’era anche Giovanni, originario di Bisterza, che approfittando di un momento di confusione riuscì a fuggire. Questo particolare lo ha raccontato proprio Ana Marija (Anna Maria quando era in Italia) al telefono. Giovanni fu catturato e, con i familiari, spedito su un treno e mandato in Italia. C’era anche Dragan, italianizzato in Carlo, il fratellino. Aveva un anno ma non partì. Era ricoverato all’ospedale di Fiume per un otite. “A quel tempo si usava il sistema dell’internamento – racconta Adriana Vicini – che consisteva nel mandare persone sgradite della zona iugoslava in Italia. I paesi erano scelti con cura. Lontani dal mare, dai confini di Stato, da stazioni ferroviarie e con una caserma dei carabinieri. San Giorgio. Forse era il minore dei mali”. La famiglia Cetin, poi italianizzata nel veneto “Zettin” (e in sloveno la C si legge come una “zeta”, non faceva molta differenza), arrivò a Mortara e fu accompagnata a San Giorgio dal podestà della città dell’Oca, Giuseppe Callerio. La casa che li aspettava era proprio quella del cortile Vaticano. Non era un brutto posto. Tantissime famiglie, un brulichio di bambini. Una bella accoglienza. I documenti segnano come data del loro arrivo quella del 26 giugno 1942. Sarebbero stati obbligati – era la regola – a lavorare. Papà Giovanni trovò subito impiego come cavalcante alla vicina Cascina Costanza. Un cartiglio ricorda questa esperienza, una lettera di referenze firmata dal proprietario, l’ingegner Costa Barbè. “Se questa guerra finisse – aveva scritto l’ingegnere – sarei ben felice di assumere quest’uomo e averlo come salariato”. Non andò così. Le donne Antonia e Francesca furono meno fortunate. Erano sarte di professione, ma mancava una macchina da cucire. Come sarebbe stato possibile lavorare? Si accontentarono di alcuni piccoli impieghi domestici. Il piccolo Carlo intanto rimaneva a Fiume, ricoverato. Ogni tanto arrivava a San Giorgio qualche lettera che aggiornava sulle sue condizioni di salute. La famiglia Cetin non aveva il permesso, nonostante lo avesse chiesto più volte, di ritornare per andare a trovare lui o la nonna. Ma le notizie erano contraddittorie: ad agosto il bambino è dato come “in dimissione”, a novembre come gravissimo. Verso la fine di quel mese del 1942 una donna di Fiume, Feliciana Tremari, aveva accettato di accompagnarlo in treno fino a San Giorgio con biglietto a carico del Regno d’Italia. Ma Carlo non partì mai. La data di morte nei documenti è quella del 26 novembre. Ana Marija e gli altri lo hanno saputo soltanto un mese dopo.
Dicembre, un mese infausto. Oltre alla tragedia di Carlo ecco per i Cetin lo spostamento al campo di internamento di Fraschette ad Alatri, in provincia di Frosinone. Non un lager, ma poco ci mancava. Tutti sapevano che gli sloveni prigionieri in Italia prima o poi sarebbero finiti in un luogo simile. La vita era durissima e la signora Ana Marija ancora non riesce a dimenticarla. Giovanni, uomo forte, si ammalò di epatite. Un’agonia lenta che lo portò alla morte nel 1960. “Intanto – prosegue Adriana Vicini – arrivavano alcune petizioni dalla Iugoslavia per riportarli a casa, da parte di alcuni amici e parenti che avevano avuto la fortuna di non essere stati internati arbitrariamente. L’ultima è datata 4 settembre del 1943”. Poi finalmente i Cetin sono tornati a casa, Ana Marija adesso vive a Lubiana, si è laureata in storia e filosofia, è diventata una poetessa molto nota e ha anche fatto politica. Parla un buon italiano, imparato sia a San Giorgio sia nelle scuole elementari dell’epoca, in cui si era obbligati ad apprendere la lingua di Dante. Una carriera di alto profilo che la ha anche reso degna di prime pagine di giornali locali. Lei, nonostante una vita intensa, non ha mai dimenticato San Giorgio, il luogo dove è stata costretta ad abitare. L’accoglienza della gente, la loro bonomia, l’aiuto costante. I suoi ricordi di bambina di 7 anni. “E dire – conclude la signora Vicini – che tutto è avvenuto quasi per caso. Noi della biblioteca ricordavamo due ebrei prigionieri qui, Moses Schaffer e Reizel Bier, quando il sangiorgese Alberto Calcagni ci ha confidato di ricordarsi di questa famiglia che viveva nel cortile dove abitava anche lui. Nel 2002 Ana Marija Cetin era tornata di nascosto, senza dire niente a nessuno, per rivedere il “Vaticano”. Ha incontrato Alberto, gli ha lasciato un suo recapito. Ricordava che chiamavano quel posto così per via dell’anziano, sempre seduto sulla poltrona rossa, proprio come un Pontefice…”. Persone curiose ed attente alle storie come Adriana Vicini e gli altri collaboratori della biblioteca, quanto ci avranno messo a telefonare in Slovenia per parlare con questa donna? Sono bastati pochi minuti a convincerla. E prima o poi tornerà, salute permettendo, forse per l’ultima volta, ripecorrendo quegli anni travagliati. Intanto anche da lontano la signora Cetin non si dimentica dei “suoi” sangiorgesi.Davide Maniac